La sfida del debranding al personal branding
Dal debranding al marketing dell’esperienza.
Hai notato che da un po’ di anni a questa parte molte grandi aziende stanno progressivamente eliminando tutta la parte testuale dai loro marchi? Prima fra tutte fu la Nike che, nel 1995, decise di affidare tutto il potere estetico del suo brand al celebre ‘swoosh’. Poi è stato tutto un susseguirsi: da McDonald’s ad Apple, da Mastercard a Playboy fino ai più recenti Facebook e WhatsApp.
Hanno fatto quello che gli esperti di marketing definiscono ‘debranding‘.
It’s evolution baby!
Il debranding si può considerare come una sorta di evoluzione del processo di branding. Un marchio con una reputazione ed una credibilità consolidata deve poter essere riconoscibile sempre. Anche attraverso l’eliminazione di ogni elemento testuale.
[ctt template=”2″ link=”dbitf” via=”no” ]Il cliente deve poter riconoscere un brand senza che il brand stesso dica chi è.[/ctt]
Una bella sfida, non c’è che dire. Ma cosa spinge un brand a giocarsi una carta così rischiosa?
Il brand è mio e me lo gestisco io
I motivi sono diversi. In primis un logo senza testo può evocare maggiori reazioni, stimolando l’attenzione del cliente, nonché la voglia di interpretarne il messaggio secondo personalissimi criteri.
senza testo può evocare maggiori reazioni, stimolando l’attenzione del cliente, nonché la voglia di interpretarne il messaggio secondo personalissimi criteri.
Come ricorda Jill J. Avery, professore associato in brand management alla Harvard Business School questo processo genera un’elevata quantità di immagini mentali che, in molti casi, contribuiscono ad una comprensione personalizzata e personale del messaggio pubblicitario.
Il debranding, dunque, avvicina il brand alle esigenze del cliente agevolando una percezione meno invasiva. In questo modo il marchio viene privato della sua dimensione “aziendale” e (ri)diventa “proprietà” del consumatore che si sente libero di interpretarlo come meglio crede.
[ctt template=”2″ link=”dbitf” via=”no” ]”Il brand è un insieme di percezioni nella mente dei consumatori“ – Colin Bates [/ctt]
Si tratta di una pratica che si è rivelata quasi obbligatoria per tutti quei brand che avevano ormai saturato la mente delle persone e che quindi necessitavano di una sorta di “reset comunicativo”.
Le dimensioni contano
Fare debranding è inevitabile anche considerando l’evolversi degli spazi promozionali.
Oggi, uno dei terreni di gioco più importanti dove intavolare partite fondamentali per la promozione di un brand, è connotato da schermi sempre più ridotti. App e social network hanno imposto nuovi standard incentrati su simboli essenziali e ben leggibili.
Appare chiaro come la presenza del testo sia diventata una zavorra pesantissima in grado di compromettere efficacia e chiarezza.
Sebbene il debranding sia una pratica principalmente legata ai cosiddetti ‘love brands‘, non posso fare a meno di pensare che il funzionamento stesso di questa pratica di “snellimento” nasconda verità applicabili anche a brand più piccoli e personali.
[ctt template=”2″ link=”dbitf” via=”no” ]”Le persone possono dimenticare cosa hai detto, possono dimenticare cosa hai fatto, ma non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire.” – Maya Angelou [/ctt]
Più esperienza meno prodotti
Salvo rare eccezioni, il consumatore bada sempre meno al nome del brand, alla sua storia ed alle sue attività promozionali. Ciò che apprezza sono le esperienze emotive legate a prodotti o servizi.
Indicativa in tal senso la campagna “Share a Coke” di Coca-Cola del 2013 che sostituì il proprio marchio dalle etichette in luogo di nomi propri, stati d’animo ed appellativi sempre più personalizzati. Questo ha portato nuova linfa al brand, generando un miglioramento della percezione del marchio oltre ad un aumento delle vendite statunitensi del due per cento; dato in controtendenza rispetto agli anni precedenti.
La grande lezione derivata da questa campagna (ripresa poi da altre aziende) è che i brand devono evitare di concentrarsi esclusivamente sulla vendita del prodotto, ma devono muoversi verso quel marketing dell’esperienza delineato da Joseph Pine e James Gilmore secondo il quale l’esperienza va intesa come una nuova forma di offerta economica (L’economia delle esperienze. Oltre il servizio, 2000).
Prevedere una pratica di debranding nel tuo personal branding forse è prematuro. Me ne rendo conto.
Bisogna però riflettere sull’importanza di concentrarsi sulla promessa di valore che proponi. È necessario abbandonare la visione egocentrica del proprio brand (il nome) e lavorare sull’apporto di valore, evidenziando sempre che puoi fornire. Devi farti ricordare per ciò che rappresenti, non per ciò che sei.
Il tutto a prescindere dai diversi strumenti a corredo del tuo personal branding. Logo compreso.
Il tuo brand è riconoscibile senza che dica chi è? Quanta strada devi fare per accettare la sfida del debranding?