30 giorni senza social: l’esperimento
Ho fatto un esperimento. Trenta giorni senza social. Niente Facebook, LinkedIn, Instagram e Twitter. Trenta giorni privi di post, commenti, interazioni e like.
Senza alcun preavviso o dichiarazione d’intenti me ne sono andato il 10 maggio 2019 e, a distanza di un mese, riemergo.
Le motivazioni
Dietro questo esperimento si nascondeva una grande curiosità. Da tempo mi interrogavo su quanto fosse realmente significativo essere presenti sui social. Quanto, all’interno di un flusso così notevole di informazioni, fosse avvertita come importante e necessaria una presenza. Come Nanni Moretti, invitato a partecipare ad una festa in “Ecce Bombo”, mi chiedevo continuamente se si fosse notata più l’assenza o il mio esserci.
Nelle mie consulenze di personal branding consiglio sempre alle persone di curare al meglio la propria presenza sui social. Ricordo loro di impegnarsi attivamente ad alimentare una presenza digitale in maniera costante ed interessante. Ma quanto avevo verificato fino in fondo queste affermazioni?
A livello personale stare sui social mi ha sempre giovato, portandomi a stringere sinergie con persone interessanti, spesso tradotte in concrete collaborazioni professionali. Ma avrei raggiunto lo stesso scopo lavorando solo con il blog ed altri strumenti promozionali?
Avevo assolutamente bisogno di una controprova.
I primi giorni sono stati piuttosto semplici. Ho sofferto un po’ l’ansia da notifiche, ma tutto quel trambusto non mi mancava (e a dire il vero non mi manca).
Oltre alla motivazione precedente, il mio allontanamento è stato dettato dalla consapevolezza di aver raggiunto un livello tale di saturazione da recepire in modo distorto qualsiasi informazione.
La continua presenza di notizie irrilevanti, messaggi promozionali, fake news e la costante vanità di egobrander in servizio permanente, mi avevano portato ad un livello preoccupante di intossicazione. Una pausa era necessaria se volevo evitare di rovinare la mia web reputation cominciando a scrivere post al vetriolo e commenti piccati. Tu chiamalo se vuoi “burnout”…
Senza andare troppo sul filosofico, ho ritrovato un po’ me stesso, recuperando dosi di autostima e concentrazione e trovando il tempo per dedicarmi ad un paio di progetti importanti.
Ma doveva esserci “la magagna”. Non poteva essere tutto così semplice ed indolore. Andava scoperta l’altra faccia della medaglia.
Le conclusioni
Alla fine dei trenta giorni posso dire, con la massima convinzione, che per chi vuole fare personal branding, essere sui social in maniera efficace, è assolutamente, insindacabilmente ed inderogabilmente fondamentale. Un po’ mi duole ammetterlo. Pur sentendo la necessità di adottare un nuovo approccio agli stessi, la presenza social non può essere tralasciata.
Allontanarsi da questi palcoscenici virtuali ha comportato solo ripercussioni negative sul mio personal branding. Ne voglio evidenziare tre:
1. La gente si dimentica di te
Forse l’aspetto più cinico della vicenda. Ma anche quello più interessante visto che parliamo di piattaforme che si fregiano dell’appellativo “social”. Salvo poche eccezioni (cui va il mio più sincero ringraziamento per i loro “che fine hai fatto?”, “cosa ti è successo?”, “sei vivo?”) le persone sui social ti dimenticano alla velocità della luce se smetti di far avvertire la tua presenza.
In un tritacarne digitale vieni inghiottito senza masticare ed espulso in un tempo brevissimo.
Di te non resta più traccia. Spariscono le menzioni, i tag, gli inviti, le richieste di collegamento. Non esisti più. Semplice.
2. Google ti castiga
Se il primo punto era, forse, prevedibile, questo secondo aspetto non lo avevo considerato. La latitanza social ha comportato un calo importante delle visite al mio blog. Google ha ovviamente notato la cosa ed ha deciso di punirmi, togliendomi la bellissima visualizzazione ‘sitelink’. Quella, per intenderci, che ti mostra il titolo del blog, una breve descrizione ad una serie di pagine giudicate rilevanti dal motore di ricerca.
Il sitelink fu una conquista importante per il mio blog. Non è concessa a tutti. Me la riprenderò, ma oggi non resta che un ricordo immortalato in questa immagine:
3. Deludi la tua audience
” Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Ok, forse qui ho esagerato. Ma morivo dalla voglia di fare una citazione ispirata al mondo del mio amatissimo Spiderman.
Posso assicurare che mi sono sentito davvero in difficoltà nei confronti di quelle persone che in tutti questi anni mi hanno seguito, ascoltato, conosciuto e scelto. Mi è sembrato un po’ come deluderle, venendo meno ad un impegno preso. Alcune, come dicevo in precedenza, me lo hanno fatto notare in modo molto diretto, altre hanno silenziosamente accettato la cosa.
Il personal branding vive ed assume valore in funzione degli altri. Sono le persone che ti elevano a rango di esperto. Si tratta di uno status che non puoi sprecare o ignorare. Ti senti in un certo qual modo debitore.
Non essere più sui social mi ha fatto sentire irresponsabile nei loro confronti.
“Scendere dalla giostra social”, per usare parole tanto care a Seth Godin, non è stato positivo.
Chi fa personal branding non può permetterselo. Quando gli altri percepiscono che riesci ad apportare valore non puoi più tirarti indietro. Devi continuare a stare sulla giostra. E girare, girare e girare. Cercando, possibilmente, di non dare di stomaco.